Situata nel cuore del Salento, Galatina è indubbiamente uno dei centri del tarantismo. Intorno all’inizio del XVIII secolo, venne edificata la cappella in onore del protettore dei tarantati: san Paolo.
Qui, negli ultimi giorni di giugno, venivano portate tutte le persone affette da tarantismo. Tutti erano in cerca della stessa cosa: la protezione e la grazia del santo. Negli ultimi anni, il comune e le associazioni locali hanno coltivato le tradizioni popolari connesse al fenomeno, creando una serie di eventi di profondo interesse culturale.
Costruita con la pietra leccese lavorata in chiave barocca, la chiesa dei Santi Pietro e Paolo fu riedificata tra gli anni 1621-1633 sul sito di un precedente edificio di rito greco.
Possiede una facciata articolata su due ordini e terminante con un timpano che inquadra lo stemma civico. L’interno, con un impianto a tre navate, è caratterizzato dagli interessanti affreschi della volta raffiguranti episodi della vita di san Pietro, eseguiti nel 1875 dal napoletano Vincenzo Paliotti. Di particolare interesse sono le tele della controfacciata, che ritraggono la “Lavanda dei piedi", “Gesù che cammina sulle acque" e l'"Apparizione di Cristo a san Pietro".
Nella cappella della chiesa si conserva un antico busto argenteo di san Pietro e la pietra, sulla quale, secondo la tradizione, l’apostolo si sedette durante la sua sosta a Galatina.
Nota come la “cappella delle tarantate", la cappella di san Paolo risale alla fine del XVIII secolo, periodo in cui venne realizzata nel Palazzo Tondi-Vignola.
Lo scenario suggestivo degli ultimi giorni di giugno è stato oggetto di numerosi studi etno-antropologici. Se si vuole rivivere indirettamente il mistero del tarantismo, è possibile farlo attraverso i libri della “Terra del rimorso” e “Danzare col ragno”. Le foto catturate da Franco Pinna, prima, e da Brizio Montinaro, dopo, esprimono le ultime fasi di questo fenomeno. Lo scenario del 29 giugno è stato anche ritratto dal famoso documentario del 1961 di Gianfranco Mingozzi: “La taranta“.
L’edificio è composto da una sola aula con una volta leccese. Alle spalle dell’altare settecentesco, una tela ritrae san Paolo, riconoscibile dalla spada, con un uomo, una donna e un angelo, che sostiene un testo sacro.
La storia di questa cappella risale al 1699, quando due sorelle, Francesca e Polisena Farina, donarono l’immobile al Capitolo di Galatina. Nell’androne, vi era un pozzo con una raffigurazione di san Paolo. Ben presto, nel corso del Settecento, quel pozzo sarebbe diventato meta di pellegrinaggi. Si riteneva, infatti, che l’acqua fosse miracolosa. Fu così che quell’immobile venne denominato le “case di san Paolo”.
Nel 1752, il Capitolo vendette le case a Nicola Vignola, un ricco proprietario, con la possibilità di erigere una cappella in onore di san Paolo. Quella che è l’attuale cappella è stata costruita dopo il 1789, data del matrimonio fra Maria Felicia Vignola, nipote di Nicola Vignola, e Fortunato Tondi.
Nella cappella c’è anche una curiosa targhetta in cui è riportato: “è assolutamente vietato danzare all’interno di questa chiesa e/o arrampicarsi sull’altare qualsiasi rievocazione storica dell’antico tarantismo è possibile solo fuori”. Un chiaro segno del tumulto di un fenomeno passato, ma che oggi è ormai scomparso.
Nella parte interna del palazzo Tondi-Vignola, è presente il pozzo della cappella con un affresco che raffigura san Paolo.
Vi è una leggenda descritta nel 1741 dal medico leccese Nicola Caputo: i cittadini di Galatina sostenevano che una notte san Paolo Apostolo, giunto nel paese, fu accolto da un uomo religioso. Così, san Paolo, per ringraziarlo, donò all’uomo “il potere di risanare – facendo il segno della croce sulla piccola ferita – quanti fossero stati morsi da animali velenosi, come scorpione, vipera, falangi e simili, facendoli bere al tempo stesso l’acqua di un pozzo della stessa Casa di S. Paolo". Nacque, così, il mito del pozzo delle tarantate.
Le tarantate, infatti, dopo aver ballato e pregato il Santo nella cappella, bevevano quell’acqua. Secondo un libro del 1908, scritto dal medico Francesco De Raho, l’acqua conteneva zolfo e cloruro di sodio. Molto spesso, infatti, quell’acqua provocava veri e propri rigetti. In un certo senso, questo veniva visto come un modo per eliminare, o esorcizzare, il veleno.
Anche l’antropologo Ernesto de Martino, ne aveva parlato nel suo libro. Tuttavia, durante la sua spedizione scoprì che il pozzo era stato chiuso da pochi giorni dal Comune: l’acqua conteneva sostanze tossiche.
Un evento costante nell’estate galatinese è la festa patronale dei santi Apostoli Pietro e Paolo che si svolge fra il 28 e 30 giugno. Durante la festa è possibile godere delle prelibatezze del territorio e ascoltare le musiche salentine in chiave tradizionale o riproposte secondo nuovi arrangiamenti.
Non mancano le rassegne cinematografiche organizzate dal comune e dalle associazioni, nelle quali vengono riproposti i documentari e i film su questo fenomeno.
Durante questi giorni, è possibile rivivere il suggestivo rituale del tarantismo assistendo alle diverse rievocazioni storiche. Vengono proposte sia rappresentazioni della terapia domiciliare sia di quella pubblica. Quest’ultima viene organizzata in piazza San Pietro con l’arrivo dei carretti con le tarantate, a seguire c’è la rievocazione storica dell’antico rito del tarantismo nella cappella di San Paolo.
Il Palazzo della Cultura “Zeffirino Rizzelli”, ex Convento dell’Ordine dei Domenicani del XV secolo, ospita il Museo civico Pietro Cavoti dal 2000. In questo museo è possibile ammirare le suggestive opere sul tarantismo del pittore Luigi Caiuli.
Classe 1940, il pittore ha realizzato venti quadri tra il 1978 e il 1998. I loro colori caldi e avvolgenti, rievocano Le movenze, i comportamenti estroversi e le pratiche delle donne affette da questo male. Infatti, tra i titoli più esaustivi ritroviamo “voglia di libertà”, “delirio” ed “epidemia coreutica”.
Il museo, inoltre, contiene le sculture di Gaetano Martinez (1892-1951) e le opere dell’artista Pietro Cavoti (1819-1890).
La Biblioteca “Pietro Siciliani” vanta oggi una raccolta di oltre trentacinquemila volumi, tra cui centotrentatré incunaboli, oltre millecinquecento cinquecentine, numerosi libri databili tra il Sei e il Settecento e ancora molti altri di recente acquisizione.
Grazie alle donazioni elargite nel Cinquecento da umanisti, medici e vescovi galatinesi, venne costruito un primo nucleo della biblioteca. Successivamente, nel 1869 a seguito dell’assunzione dei beni ecclesiastici da parte del Comune, aumentò il numero delle raccolte. A queste si aggiunse la Biblioteca del filosofo Pietro Siciliani, al quale oggi deve il suo nome.